Appunti di viaggio: gli USA on the road

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Da Las Vegas alla Valle della Morte tra zombie, deserti e chimichanga: a bordo di una “jucy car” lilla e verde pisello, Silvia Mauri ( l’autrice della tovaglietta illustrata contenuta nella box #6 Sri Lanka) ci racconta con parole ed illustrazioni il suo viaggio da sogni: gli USA on the road.

Se parli a un italiano di cucina statunitense penserà subito a un mega-burger annegato in salse di ogni sorta e sommerso da una vagonata di patate fritte. In parte ha ragione, ma gli Usa sono una terra di contrasti stupefacenti, dell’inaspettato dietro l’angolo, dove anche il cibo può regalare piacevoli sorprese.

Las Vegas: beveroni, neon e zombie


A Las Vegas ti basta girare un angolo e ti ritrovi sulla strip, a farti strada tra la folla immerso in tutto il trash del mondo, con un beverone dolciastro e fluorescente appeso al collo in un bicchiere di forma e dimensioni improbabili, tra gondolieri, sosia di Elvis, luci al neon…O intrappolato in qualche enorme casinò che sa di moquette, dove non necessariamente perdi i tuoi soldi ma inevitabilmente perdi il senso del tempo prima di rintracciare l’uscita.
Dopo qualche ora a Las Vegas inizio a chiedermi chi possa vivere in un posto così folle e la risposta arriva a bordo di un pick-up nero. I due ragazzi che si offrono gentilmente di salvarci dal camminare fino al nostro motel sotto il caldissimo sole di settembre si sono trasferiti in città da una decina d’anni, e da non molto hanno aperto lo “Zombie Apocalipse Store”. Facciamo una piccola deviazione per visitarlo, è un magazzino abbastanza lontano dal centro dove, tra uno zombie e l’altro, puoi comprare un po’di tutto: tazze, magliette, dvd, manifesti, armi (più o meno apocalittiche ma tutte assolutamente autentiche, a differenza di quasi tutto ciò che ho visto a Las Vegas)…
Sì, la “Sin City” è esattamente come te l’aspetti: un gigantesco spettacolo di luci, suoni, giostre, rumori, e persino zombie; ma per qualcuno è anche vita vera.

Grand Canyon: Poppy, Molly e cowboy cookies.


Dopo una notte a Las Vegas ti svegli quasi sicuramente confuso, ma non importa più di tanto quando sai che la prossima tappa del viaggio è il Grand Canyon. Niente Cadillac, niente Harley, niente camper dalle dimensioni di un aeroplano in vero stile nord-americano: io e la mia compagna di viaggio ritiriamo con fierezza la nostra “jucy car” lilla e verde pisello con una pin-up sorridente stampata sulla fiancata, dotata di “penthouse” e cucina completamente attrezzata; un po’ eccentrica, forse anche imbarazzante, ma sicuramente il mezzo ideale per fare amicizia anche nel mezzo del deserto e guadagnarsi una colazione a base di “cowboy cookies” fatti in casa.
La mattina seguente mi sveglio presto e un po’ male, nel Grand Canyon c’è una notevole escursione termica e le pareti della nostra “penthouse” non sono esattamente a prova di umidità, ma una volta fuori incrocio lo sguardo di un cerbiatto e subito mi torna il sorriso. Metto l’acqua sul fuoco per prepararmi un tè, a quel punto un signore con due cagnetti bruttini e dal pelo ispido – ma molto teneri – si avvicina incuriosito e dopo aver ispezionato la mia “jucy car” mi presenta “Poppy and Molly”, i suoi cagnetti di razza vattelapesca, che mi dice essere ottimi compagni per gli homeless perché cacciano scoiattoli e altri piccoli animali. Dopo qualche chiacchiera il mio tè è pronto e mi chiede se ho mai assaggiato i “cowboy cookies” del Colorado, rispondo di no, allora farfugliando qualcosa che non capisco si allontana nella boscaglia e dopo qualche minuto torna con un sacchetto di biscotti fatti in casa dalla moglie.
Quel giorno ho visto uno dei panorami più belli di tutta la mia vita e ho scoperto che sapore meraviglioso ha un vero cookie del Colorado.

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Arizona: alberi di pietra, jackalope e chimichanga


Ripartiamo verso la Petrified Forest, un deserto che sembra dipinto da Wes Wilson in cui riposano scintillanti fossili di tronchi millenari, e da lì attraversiamo l’Arizona in direzione California, percorrendo la route 66 sulle note di “go your own way” dei Fleetwood Mac, strombazzando come fossimo Harleysti ogni volta che incontriamo un’altra pin-up lilla e verde.
Su queste strade infinite hai sempre l’impressione di aver percorso poche miglia, eppure attraversi deserti di pietra, deserti di terra, deserti di sale, deserti di cactus… E dopo tutte le forme di deserto che potevi immaginare – e anche di più – ti trovi nel cuore della 66, tra paesi fantasma, agghindatissimi manichini vintage su veicoli d’epoca di ogni sorta, asini di quelli che hai visto solo nei veri film western e artigiani barbuti che lavorano ossa di bufalo e ossidiana. È solo allora realizzi di essere in viaggio da ore.

In una qualche tavola calda dell’Arizona ho scoperto poi la chimichanga: una tortilla ripiena di svariate cose, ma soprattutto fritta, accompagnata solitamente da guacamole, fagioli (a volte anch’essi fritti) e riso. Verrebbe da pensare che sia un piatto messicano – effettivamente è una variante del burrito – ma pare nasca nel 1922 in un ristorante di Tucson, dove la proprietaria fece accidentalmente cadere dell’impasto nell’olio bollente. La fonte non sembra ufficialissima, e c’è da dire che in Arizona c’è anche chi cerca di farti credere che il jackalope – leggendaria lepre con corna d’antilope – esista realmente, ma sulla chimichanga tre certezze le ho:
1. ha un nome che ti fa venire voglia di assaggiarla
2. è buona  
3. non è propriamente salutare ma ne vale la pena!

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Death Valley: Dolly Parton, distillati piccanti e l’uomo che cammina per il mondo.


Sognavo la Death Valley da quando, da ragazzina, ho visto per la prima volta “Zabrinskie Point” di Antonioni. Dune di sabbia dura come il marmo, immense distese di sale, infiniti calanchi che per qualche motivo mi fanno pensare al tiramisù, rocce dei colori dell’arcobaleno, la luce più abbagliante che io abbia mai visto e un meraviglioso silenzio interrotto solo dall’ululare dei coyote nella notte.
Dopo tre giorni nel deserto sentiamo il bisogno di una doccia vera e di un letto comodo, così ci fermiamo in un motel a Beatty, appena fuori dalla valle. Quella sera beviamo una birra al “Sourdough Saloon”, seduti al banco intorno a noi ci sono: un perfetto cowboy d’altri tempi con lunghi capelli brizzolati e speroni agli stivali, una signora bionda sulla cinquantina che intona canzoni di Dolly Parton con una voce incredibile, un giovane pompiere e due ragazzi inglesi. Riconosciamo uno dei due, l’abbiamo visto camminare nel deserto spingendo un carrello da viaggio, si chiama Karl Bushby ed è una delle persone più straordinarie che io abbia mai incontrato. Il pompiere incoraggia Chad, il proprietario del saloon, a far assaggiare a noi gringo la specialità locale: un distillato piccantissimo, di quelli che bruciano la gola e rompono il ghiaccio. Così tra un uno shot e l’altro Karl ci racconta la sua impresa: la “Goliath Expedition”, un viaggio di 36 mila miglia, iniziato più di dieci anni prima in Sud America, che lo riporterà al suo paese natale, nel Regno Unito, rigorosamente a piedi.
La più lunga camminata ininterrotta nella storia umana.

Sourdough Saloon