Hebron, Palestina. Tra hummus, falafel e filo spinato

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Descrivere la mia esperienza in Palestina e in Israele non è facile. Vorrei essere il più imparziale possibile, parlare di viaggi, di luoghi, di sapori ma non può essere solo questo, la politica e le ingiustizie vengono prima, ogni volta che si parla di queste terre.
C’è chi la chiama Palestina, chi Terra Santa e chi Israele, in qualunque modo vogliate chiamarla questi luoghi hanno suscitato un’attrazione così forte in me che dopo un primo viaggio, ho deciso di tornarci una seconda volta. 

Ci sono molti motivi che spingono le persone a partire per un viaggio in quella zona del mondo, il periodo di “pace” di facciata degli ultimi anni e la sapiente strategia turistica israeliana attirano sia religiosi, sia viaggiatori che con la religione centrano poco. I più vanno alla scoperta della architettura e delle discoteche di Tel Aviv, delle spiagge di Eilat o delle bellezze di Gerusalemme. Quest’ultima è una delle città che preferisco al mondo, è un posto speciale che risplende di energia e storia in ogni suo angolo.
E la Palestina? È un buco nero, viene quasi esclusivamente associata alla guerra, a Gaza, al terrorismo, ne viene assolutamente sconsigliata la visita e, detto francamente, che cosa ci vai a fare in Palestina? Per quella che è stata la mia esperienza, i viaggiatori che ho incontrato andavano per comprendere o per aiutare. Io volevo cercare di capire le ragioni dei palestinesi e l’occupazione israeliana: il luogo migliore in cui farlo è ad Hebron, la città più popolosa della Cisgiordania. 

Filo spinato, mobili abbandonati, bandiere palestinesi e vecchi poster di Arafat sono una costante nei vicoli di Hebron

Arrivo a Hebron in tarda mattinata e vengo ospitato da una famiglia palestinese a pranzo. Mi spiegano che il modo migliore per scoprire il loro paese è attraverso la cucina, davanti a un piatto di falafel croccanti da intingere con abbondante hummus. Queste due specialità, orgogliosamente definite da Israele piatto nazionale, non sono altro che un furto di un simbolo identitario palestinese/libanese. Durante il pranzo mi fanno assaggiare e mi parlano delle meraviglie della cucina palestinese e rispondono ad alcune delle mie domande sul conflitto.
La prima cosa che mi spiegano è che ogni ricetta parte dall’olio di oliva: la pianta è considerata qualcosa di sacro. Come nel resto del Medio Oriente c’è un largo uso delle spezie come il cumino e il somacco e della frutta secca come mandorle, pistacchi e sesamo. Il vero re però da queste parti è lo zahtar, un mix di spezie composto da timo, somacco e sesamo che si sparge sopra una focaccia che viene consumata di solito a colazione. Deliziosa.
Hummus e falafel, li ho già citati e sono gli altri due king delle tavole palestinesi. Entrambi a base di ceci, la prima è una salsa, il secondo una polpetta fritta e sono ormai conosciutissimi anche dalle nostre parti essendo due bandiere della cucina vegetariana.
Gli antipastini continuano con il ful, simile all’hummus ma a base di fave secche e il baba ganush, una salsa costituita da melanzane e spezie varie. Non mancano poi i dawali, delle polpettine di riso e carne avvolte in una foglia di vite e una perfetta insalatina di pomodori, cetrioli e olive.
Sarei a posto già così ma si continua con il piatto principale, che mi viene servito su un tegame ancora bollente: la shakshuka. Definirla uova al sugo sarebbe sminuente, il sapiente mix di aglio, olio, prezzemolo, cipolle e spezie gli donano un sapore unico. Si passa poi al classico shawarma palestinese, uno spiedone rigorosamente composto da carne d’agnello macinata con prezzemolo, cipolla e pomodoro. 
A fine pasto baghlava e halva, un dolce a base di tahina di sesamo, zucchero e pistacchi. The e caffè se ne bevono in continuazione, sono unici e inconfondibili: il the sempre con troppo zucchero, almeno 3 cucchiaini, mentre il caffè ha sempre quel particolarissimo aroma speziato dovuto alla presenza dei semi di cardamomo nella macinatura. 

Preparazione degli shawarma

Tra un falafel e l’altro ho avuto modo di approfondire la loro visione della situazione, mi alzo da tavola, il figlio maggiore mi porta in giro per la zona palestinese della città. 
Antefatto: cercherò di spiegarvi nel modo più semplice possibile perché Hebron viene considerata la città simbolo dell’occupazione e dell’apartheid israeliano. Si trova in Cisgiordania, è abitata da 200.000 palestinesi e 700 ebrei (più altri 7000 in un insediamento illegale, secondo il diritto internazionale, alla periferia della città). È considerata così importante da entrambe le religioni perché ospita la “Tomba dei Patriarchi”, il sepolcro di Abramo, Isacco e Giacobbe, il secondo luogo più sacro per gli ebrei ma venerato anche dai musulmani. Dopo un secolo di scontri, uccisioni e soprusi sia da parte israeliana che da parte palestinese, nel 1994, un medico israeliano di nome Baruch Goldstein, entrò nel sepolcro di Abramo e uccise 29 palestinesi sparandogli alla schiena mentre stavano pregando. Dopo questo massacro si generarono una serie di violenze reciproche e la città per ragioni di sicurezza (israeliane) venne divisa in due zone: H1 sotto controllo di quel rimane dell’Autorità Palestinese e H2 sotto controllo israeliano. Questo fa si che i palestinesi siano sottoposti a uno stretto regime di permessi, controlli e divieti per spostarsi ed accedere a zone della città controllate dagli ebrei.

La Tomba dei Patriarchi

Fine antefatto: la situazione attuale a Hebron è assurda, a partire dalla divisione della Tomba dei Patriarchi. L’interno è diviso in due zone per far si che ebrei e musulmani non ci incrocino mai; da una parte la sinagoga, dall’altra la moschea, al centro a fare da divisore il sepolcro di Abramo separato da una parete di vetro antiproiettile.
Anche il centro città è diviso: i palestinesi non possono entrare nella zona ebraica e gli ebrei non possono entrare nella zona palestinese e tutto è sotto il controllo dei militari israeliani. 
La città vecchia è inserita nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO, è graziosa ma meno bella rispetto a quella di Gerusalemme. Quello che colpisce è la quantità di negozi e botteghe chiuse e quanto sia poco frequentato a causa delle difficoltà di spostamento a cui sono costretti gli abitanti. Ho visto tanti suq nei miei viaggi in Medio Oriente ma il silenzio assordante e la calma di quello di Hebron continuano a risuonare nella mia testa. 
Ogni vicolo è coperto da reti metalliche per proteggere i passanti dal lancio di pietre o immondizia che qualche colono ebreo si è divertito a gettare dai secondi o terzi piani delle case della città vecchia. Molte infatti sono state espropriate per far si che i palestinesi non abbiano finestre sui vicoli dedicati agli ebrei. 
Quando parlo di ebrei non voglio farlo in modo offensivo, la verità è che gli abitanti ebraici di Hebron sono per lo più coloni fondamentalisti che hanno deciso di trasferirsi in questa città con grandi sovvenzioni del governo. Resistere in mezzo alla Palestina è la loro ragione di vita.

Militari, strade bloccate dal cemento, checkpoint a cui mostrare i propri documenti sono ovunque. È a tutti gli effetti una zona di guerra, ma grazie al mio passaporto e al mio aspetto occidentale, non ho avuto problema di alcun tipo e non mi sono mai sentito in pericolo. Arrivo poi alla famosa Al-Shuhada, un checkpoint ne delimita l’ingresso, lo supero ed entro nella zona ebraica. Al-Shuhada in passato era la strada principale di Hebron, ricca di attività e di vita, ora è una via fantasma. I palestinesi che abitavano qui sono stati sfrattati dalle case e i loro negozi chiusi. I militari controllano tutto e ogni tipo di libertà è andata persa.

Il checkpoint per entrare a Al-Shuhada

Il rappresentante degli israeliani di Hebron mi racconta qualcosa in più sulla loro realtà, praticamente ogni angolo è macchiato di sangue, sono decine le storie di assassini, vendette e uccisioni, mi vengono le lacrime. Dalla città vecchia risalgo una collina, la più alta di Hebron, che è ovviamente sotto controllo israeliano, mi affaccio alla ringhiera di una casa, guardo la città in uno degli ultimi tramonti invernali, le sfumature del tramonto si riflettono sul bianco delle case. Rifletto e penso a tutto quello che ho visto e ascoltato durante la giornata. Riscendo la collina passando per un oliveto, il simbolo della Palestina mi da forza prima di lasciare Hebron. Rientrando a Gerusalemme attraverso la barriera di separazione israeliana, un muro lungo 730 chilometri e alto 8 metri che divide Israele dai Territori Palestinesi e ripenso alla pianta dell’olivo e al suo significato beffardo. Un simbolo di pace, in questa terra che sembra non riuscire a conoscerne.

Hebron vista dall’alto

In questo racconto ho cercato di dare la mia visione, sforzandomi di non dare un’opinione a senso unico. Ho avuto la possibilità di confrontarmi con abitanti di Hebron sia da parte palestinese che da parte israeliana. I primi oltre all’oppressione politica, sociale ed economica, devono confrontarsi con la mancanza dell’appoggio di una classe politica totalmente divisa e fortemente corrotta. Mi ha colpito molto sentire critiche palestinesi non solo verso l’esercito o lo stato israeliano ma anche verso la propria classe dirigente. I secondi sopravvivono grazie all’appoggio e ai finanziamenti dello stato e alla protezione di un prepotente e arrogante esercito.

La barriera di separazione israeliana nei pressi di Betlemme

Le foto probabilmente raccontano più delle mie parole, se andrete in Israele passate una giornata ad Hebron e cercate di comprendere qualcosa in più riguardo a questo conflitto infinito.
Nonostante la sua visita lasci un’amarezza e un senso di ingiustizia difficile da raccontare, è importante informare, tra un falafel e l’altro ad alleviare la malinconia.